‘Don Quijote de la Mancha’ ovvero ‘ Il mondo è un posto fantastico visto con i miei occhi’
Ma voi avete mai scambiato un mulino a vento per un gigante?O un gregge per armate nemiche? O un monaco per uno stregone? Sono degli errori non proprio da niente. Eppure se parlaste cinque minuti con Don Quijote de la Mancha dopo tutto la cosa non vi sembrerebbe così fuori luogo, confrontandola ad una figura del genere.
È un personaggio letterario, nato dalla mente di Miguel de Cèrvantes (1547-1616) ,o che affascinato secoli di lettori e interpreti, e di un’importanza considerevole. Ammettiamolo. Tutti noi abbiamo visto un’illustrazione sui libri alle elementari o anche uno dei tanti fumetti che mostrano un buffo cavaliere che cerca di uccidere un mulino a vento. E ne abbiamo riso. Chi non lo farebbe? Ma il folle Don Quijote de la Mancha (perché certamente di folle si tratta) ha un significato molto più profondo.
La sua follia non è una semplice perdita di senno, per cui la persona non è più in grado di capire e comprendere nulla, aggirandosi come un animale incollerito (come farebbe un Orlando furioso per intenderci). La mente di Don Quijote esiste e agisce, ma interpretando il mondo come più gli aggrada, seguendo le sue più sfrenate fantasie e muovendosi come un cavaliere di ventura in uno dei tanti poemi cavallereschi che da sempre affascinano la gente. Ciò che fa Quijote da pazzo è una conseguenza di ciò che ha fatto da sano. Prima era un nobile spiantato a cui piacevano, letteralmente, ‘alla follia’ i romanzi cavallereschi e passava le giornate leggendoli. Le persone cercano di riportarlo alla realtà, anche bruciando i suoi libri, ma il suo cervello segue la strada diametralmente opposta. Il nobile diventa per sua convinzione un parodico cavaliere errante e armato con quello che trova, montando un ronzino, parte all’avventura, accompagnato dal suo paffuto servo Sancho Panza che lo segue fedele a cavallo di un asinello. Come abbiamo già detto caricherà i mulini a vento, convinto siano giganti a molte braccia. Si azzufferà con due monaci benedettini credendoli malvagi incantatori rapitori di una principessa. Inizierà ad uccidere un gregge di pecore, credendo convintamente di fronteggiare un esercito saraceno, come nel decimo secolo, quasi facendosi ammazzare dai pastori.
La follia di Don Quijote è un desiderio profondo di tutti noi. Quello di non rassegnarsi ad una vita brutta, grigia e monotona, segnata dall’inettitudine e dall’irrilevanza. Perchè essere un nobile senza soldi e onore, con una proprietà che costa più di quel che rende, in uno sperduto paesino della Spagna con a malapena un barbiere con cui discutere di libri, quando puoi essere un nobile cavaliere che uccide mostri,affronta nemici e salva principesse? Diciamocela tutta. Se ci facessero scegliere vorremmo tutti essere Don Quijote.
La follia è un modo di reagire alla società, e ai cambiamenti che ci tolgono le certezze.
Se poi consideriamo che quando Cèrvantes scrive il romanzo, alla fine del Cinquecento, la scienza aveva da poco decretato che la terra, che per duemilacinquecento anni era stata ufficialmente e incontrovertibilmente ferma e perno fisso dell’universo, ora era in movimento cosmico costante, beh verrebbe anche naturale pensare ‘se ieri la terra era ferma e oggi si muove, perché ciò che mi è sempre sembrato un mulino a vento oggi non potrebbe essere il mitologico gigante Briareo?’.
Don Quijote rappresenta tutti noi, che in un modo o nell’altro cerchiamo di sopportare come meglio possiamo i cambiamenti che sempre arrivano.
Anche l’amore che Don Quijote ricerca è qualcosa di ideale. Non vuole innamorarsi di una contadina, sua vicina di casa senza nome né storia. Esattamente come noi vorremmo tutti essere in una scena di Notting hill e innamorarci di Julia Roberts, Don Quijote vuole conquistare la mano di Dulcinea del Toboso, dama arturiana al pari di Ginevra o di Angelica.
Pensate che l’opera di Miguel de Cèrvantes (1547-1616) è da sempre considerata l’opera più importante mai scritta in lingua spagnola e, tuttora, per Don Quijote a lui è intitolato l’istituto di tutela della lingua (è paragonabile nell’ambito della lingua italiana a Dante Alighieri). Inoltre il prestigioso Norwegian Wood club lo ha definito ‘la più grande opera letteraria mai scritta’.