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Chiunque sia stato a Venezia almeno una volta nella vita conosce bene la sua bellezza, il suo potere di stregare con la sua unicità e di infiltrarsi nei cuori dei suoi visitatori che poi non possono voler fare altro che tornarci. Chi vi ha vissuto, anche solo per un giorno, conosce bene questa sensazione, questo tipo di amore leggero e spensierato, ma allo stesso tempo che nasce da subito in modo irrazionale, quasi folle se vogliamo. Molti personaggi sono passati per le sue calli e i suoi campielli cercando, a loro modo, di raccontare la sua magia, ed è proprio questo ciò che il famoso scrittore americano Ernest Hemingway ha cercato di fare dopo essere inevitabilmente caduto in questa “trappola”.

 

Hemingway arriva per la prima volta a Venezia nel 1948, e da quel momento continua a tornarvi e ricomincia a scrivere dopo dieci anni facendo uscire uno dei suoi ultimi romanzi, “Di là dal fiume e tra gli alberi”. La storia che racconta è quella di un amore un po’ pazzo, di una passione avvolgente che però dona anche quel pizzico di brio e giocosità che mancava nella vita del protagonista. La storia che racconta è, in parte, la sua storia: quella del suo amore per Venezia, ma anche di quello che a Venezia ha trovato. Infatti, durante uno dei suoi soggiorni, Hemingway si innamorò della nobildonna diciannovenne Adriana Ivancich, e tra i due nacque una relazione che in realtà non venne mai consumata se non tra le pagine del suo libro. I trent’anni di differenza d’età e il fatto che l’uomo fosse sposato non permisero loro di poter concretizzare ciò che provavano, ma niente ha mai potuto impedire la nascita e la crescita di questo rapporto che continuò anche quando lui partì per Cuba. Anche se lontani, continuarono a scriversi e ad alimentare la connessione che avevano provato l’uno verso l’altra.

 

Ma l’amore che Hemingway provava non riguardava solamente il rapporto in sé, ma anche la città in generale, che lo aveva incantato già dalla prima volta in cui vi aveva messo piede. Girando a piedi per Venezia, infatti, sono tanti i posti che lo scrittore frequentava abitualmente e che lo ricordano affettuosamente ancora oggi: l’Hotel Gritti in cui ha soggiornato, il Caffé Florian in Piazza San Marco, l’Harry’s Bar affacciato sul Canal Grande e dichiarato patrimonio nazionale dal Ministero dei Beni Culturali nel 2001, in cui Hemingway si rifugiava per ore a dare voce ai suoi pensieri mettendoli nero su bianco. Andava spesso anche all’isola di Torcello, soggiornando alla Locanda Cipriani, dove poteva scrivere e bere di notte e la mattina dopo uscire a caccia di anatre tra i canneti. In questa città, lo scrittore camminava e si perdeva, sorpreso in ogni angolo dalla sua bellezza come un bambino che per la prima volta scopre il mondo, ogni giorno.

 

Quella di Hemingway e di Venezia è, sicuramente, una storia d’amore, ma non nel senso più convenzionale del termine: riguarda il profondo innamoramento nei confronti della vita che in sé unisce il gioco, la follia e, appunto, l’amore. Spensierato nella sua leggerezza, folle nella sua irrazionalità e istantaneità, e totalizzante nella sua passione. Ma forse, in fondo, non è forse questa la magia di Venezia? Non è una storia che appartiene un po’ a chiunque la veda per la prima volta?

 

Al suo amico Bernard Berenson Hemingway scrisse: “Sono un ragazzo del Basso Piave… sono un vecchio fanatico del Veneto ed è qui che lascerò il mio cuore”, insieme a quelli di tanti altri che ancora battono nascosti dietro l’angolo di qualche calle.

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